Nel buio della patella.
Passavo i pomeriggi d’estate a osservare le patelle sugli scogli, in attesa che si facesse l’ora per gettarmi in acqua.
Le conoscevo bene. Le prendevo per usarle come esca.
Pensavo che andassero bene per tutti i pesci. Invece ho scoperto che solo i saraghi ne sono ghiotti. E per fortuna, da quelle parti, il mare era pieno di saraghi.
Non capivo come facesse la patella a sapere che ero lì, con il coltello in mano, pronto a spiccicarla dallo scoglio.
Hanno occhi? Non se ne vedono, quindi no.
Eppure se ti avvicinavi quatto quatto, come se la patella fosse una mosca, e muovevi veloce il coltello, allora la spiccicavi dallo scoglio con un sol colpo.
Ma se invece facevi rumore, agitavi l’acqua o peggio ti avvicinavi troppo, quella aderiva forte allo scoglio e non c’era verso di spiccicarla. E più facevi forza, più quella si appiccicava. Certo, la potevo rompere, ma a me serviva intera, solo così era perfetta come esca. E poi era diventata una specie di sfida, una questione d’onore spiccicarla con un sol gesto.
Come faceva a sapere che ero lì, minaccioso, senza vedere niente?
Oggi se ne sa di più.
Gli scienziati hanno trovato l’occhio della patella. E’ molto primitivo: poche cellule fotosensibili immerse in una gelatina trasparente.
Forse possono vedere, si e no, se è giorno o notte. Solo questo.
Così ho capito.
Bastava non farle ombra.