Si era affezionato a quel nomignolo, il “Proiettile”. Ma adesso che stava per entrarci, non ne era così felice. Il “Large Amorphical Neo”, abbreviato in LAN, era così mastodontico, come macchina da lancio, che sarebbe stato impossibile da nascondere. Tanto valeva costruirlo ben in vista, in un luogo molto favorevole per la gestione logistica. Dopo un paio d’anni di analisi, la NextEuro Foundation aveva stabilito di costruirlo alla foce dell’Elba, molto vicino a Cuxhaven, in modo da beneficiare dei servizi della vicina Amburgo.
Poi era seguita la costruzione. Ci vollero ben 12 anni, e andarono pure veloci, finanziati dalla BCE, con la consulenza dei cinesi che avevano già terminato la costruzione della loro versione del LAN. Per l’occasione avevano invitato Elisabeth, colei che per prima aveva ricevuto il messaggio alieno col progetto. Lei non riusciva a credere ai propri occhi: era incredibile che nel giro di soli 22 anni si fossero costruite sul pianeta ben quattro versioni del LAN. Sorrideva sorniona. Per lei era un’autentica sciocchezza costruirne quattro, da un solo pianeta, con una sola specie intelligente. Era come dire a tutto l’Universo “siamo stupidi”. Tuttavia se la gente investiva tutta quella montagna di denaro vuol dire che credeva al racconto del suo primo contatto, anche se tutto era accaduto tanto tempo prima, con nessuna prova inconfutabile di quel che era successo.
Giovanni, nome in codice “Falco”, era stato scelto per il viaggio dopo mesi di discussioni e ripensamenti. Perchè Falco non era un astronomo, non era nemmeno uno scienziato, era un semplice economista assistente del governo italiano, una specie di Consulente Avanzato. Così amava definirsi. E come fosse arrivato alla rosa dei nomi dei pochi eletti scelti per la prima missione era persino per lui un gran mistero. Ma tant’è, eccolo lì.
Sua moglie era morta insieme al suo unico figlio in un incidente ferroviario, forse frutto di un attentato. Cinque anni prima, e adesso lui ne aveva 38. Era stata dura. Anzi, non sapeva nemmeno come ce l’avesse fatta a sopravvivere. Si considerava solo come una cane. Non era vero, ma lui preferiva pensarsi così.
Di astronomia ne sapeva davvero poco. Aveva seguito un corso di geografia stellare, quel tanto che bastava per poter tentare di capire, a volo, dove fosse finito. Forse. E con un certo margine di errore, svariati milioni di anni luce, probabilmente.
D’altra parte Elisabeth era stata prodiga di dettagli sul suo presunto viaggio del primo contatto. Il suo Proiettile si era fermato su Vega, forse, per poi proseguire verso il centro della Galassia, ma non si sapeva se quella su Vega fosse una specie di stazione fissa, oppure allestita dagli Altri (così li chiamavano, visto che asserivano esserci molte specie viventi intelligenti in giro per la Galassia) proprio per facilitare il primo contatto.
Il Governatore della Regione Italia, il Dott. Angelo Gentile, aveva proposto alla Fondazione che fosse preferibile uscire dalla stretta professionalità astronomica per il secondo contatto europeo. Fu presa come una posizione politica molto stravagante. All’inizio. Perchè a viaggiare nel Proiettile doveva essere un astronomo? Mica doveva superare un esame universitario intergalattico sull’astronomia! Gli Stati Uniti d’Europa (SUE) avevano altri problemi che l’esplorazione spaziale. C’era il problema dell’inquinamento, dell’energia e della muscolosità delle altre tre superpotenze, USA, Russia e Cina. E visto che ognuna di queste stava costruendo o aveva già costruito la propria versione del LAN, tanto valeva fare qualcosa di diverso dagli altri e tentare di risolvere problemi concreti. Energia, per esempio, di cui la SUE aveva una sete che non si riusciva a estinguere, continuamente minacciata da ricatti più o meno amichevoli degli altri tre poli mondiali, un paio dei quali in surplus. La domanda era: gli Altri potevano darci una mano a risolvere il problema dell’energia? Magari darci una dritta tecnologica? In fondo, era in gioco la tenuta stessa della SUE. Si poteva fare tesoro della storia degli Altri per risolvere il problema della coabitazione di quattro giganti politici che si guardavano in perenne sospetto, ognuno accusando gli altri di averlo accerchiato?
La SUE aveva deciso di costruire il suo LAN perchè dai cinesi, dai russi e dagli americani non sarebbe arrivato nessun aiuto. Tutto quanto era segreto: la costruzione, le modifiche, il calendario dei Voli, tutto. Si sapeva solo che la LAN europea, nonostante tutto, sarebbe stata la prima ad effettuare il Volo di Secondo Contatto, semplicemente perchè gli altri tre non riuscivano a risolvere il problema di “chi” dovesse salire sul Proiettile. Anche quello era, in effetti, un segreto, ma tanto ben nascosto da essere del tutto evidente.
Così Giovanni, contro tutte le previsioni, era sulla piattaforma di lancio, in tuta spaziale, e il Lancio una realtà concreta, di lì a minuti. In una tasca del pantalone aveva il tablet e nell'altra una bottiglia d’acqua da un litro. Elisabeth glielo aveva caldamente consigliato. Lei era rimasta nel proiettile 18 ore e la tuta permetteva di “farsela addosso” se capitava di dover andare in bagno, ma la sete era cosa molto peggiore.
Mentre i colossali cerchi del LAN continuavano ad accelerare generando un rumore assordante, Giovanni si chinò leggermente in avanti per guardare la tasca del suo pantalone destro. Il tablet era lì. A sinistra invece c’era la bottiglia.
I cerchi continuavano a stridere e a volteggiare sotto di lui, in piedi sulla piattaforma d’ingresso al Proiettile, a più di 120 metri dal suolo. La piattaforma vibrava leggermente. Accanto a lui Adolf Schekter, l’addetto all’ingresso, lo guardava reggendo un tablet. Aveva le cuffie, ma Giovanni stentava a credere che potesse sentire qualcosa, in quel baccano infernale.
Si chiese se avesse paura. Siccome non sentiva nessuno degli effetti della paura come lo stomaco strizzato, la debolezza delle ginocchia o il respiro affannoso, se lo doveva chiedere. Era il momento giusto. Sul display al polso lesse la frequenza del battito cardiaco: 118 al minuto. Tutto sommato normale, viste le condizioni.
Quindi, se lo chiese di nuovo: ho paura? La risposta che gli giunse dallo stomaco fu affermativa. Forse era la parte più ancestrale del suo sistema nervoso.
Quindi si chiese perchè.
La risposta non era la possibilità di morire. Quella aveva dovuto affrontarla molti mesi addietro. Aveva addirittura sperato di morire. Un paio di volte aveva anche pensato a come ammazzarsi. Tuttavia era anche possibile che il suo istinto di sopravvivenza fosse più forte, e la paura un campanello d’allarme involontario. No, era una paura più banale: l’ignoto. L’inaspettato, l’inverosimile, il terrificante. Il cinema horror. Lui stava entrando di sua volontà dentro un Proiettile che poteva catapultarlo a vivere in prima persona un film horror, un incubo senza risveglio. Era quello che gli metteva paura. Per questo aveva deciso che, a differenza di Elisabeth, avrebbe cercato di non dormire, e per questo aveva insistito ad avere fonti di luce, sul casco, dietro la schiena, sulle spalle. Buio, uguale sonno, uguale possibile incubo. Grazie, no.
Il Proiettile lo sta aspettando. Giovanni si gira verso Adolf e annuisce. Dalla Sala Controllo comunicano che tutto è pronto, lo stato è GO, può entrare. Entrare nel Proiettile. E’ una sfera perfetta. Basta un passo, uno solo, e salta dentro.
Tutto è curvo intorno a lui. Le gigantesche circonferenze del LAN stanno girando vorticosamente decine di metri più in basso, creando una ipnotica configurazione di curve e cerchi che si alternano, sotto la luce del sole basso. E non è ancora partita la quarta, con i suoi missili.
Lui lo sa, non c’è cosa dritta al mondo.
Lo sa da quando il padre lo portava in montagna a scattare panorami. Poi a casa il padre si affannava a rettificare l’orizzonte marino come una linea dritta, fantasticando il possesso di obiettivi privi di aberrazione. Giovanni gli disse che, se Einstein aveva ragione, tutto è curvo: orizzonte, luce, obiettivo e persino la pellicola. Ernesto, il padre, ne era rimasto sorpreso. Gli chiese da dove l’aveva tirata fuori, quell’idea. Dal libro di astronomia, rispose. C’è scritto che si può prendere un qualsiasi tratto lungo un metro nell’orbita della Cometa di Halley, nella parte centrale, e si verificherà essere dritta come la riga della professoressa sulla cattedra. Quasi, disse Giovanni. Perchè invece noi sappiamo che è il tratto “quasi” dritto di una curva molto, molto, ma davvero molto lunga. E’ tutta una questione di ordini di grandezza.
“Tutto relativo, quindi” disse il padre.
“Boh, li non so”
“E quindi per due punti passa solo una e una sola retta all’infinito?”
“Beh, quello è un assunto, come Dio esiste, in matematica. Ma io vedo solo che tra due punti, su un foglio di carta, passano infiniti segmenti curvi. Le rette dritte all’infinito sono un sogno, un’illusione, utile per risolvere i problemi di geometria.”
“L’astronomia ti appassiona?”
“Astronomia? Neanche un po’. Non si fanno soldi con l’Astronomia, e io ne voglio fare tanti, ma tanti!”
Giovanni ricordava la risata di suo padre. In quel momento era vero, tutto vero: non voleva scoprire niente, solo fare soldi. Poi venne la pubertà e tutto cambiò.
E adesso doveva entrare nel Proiettile. Un nome sbagliato, come tanti. Affibbiato sol perchè era sferico, come il pallino di una cartuccia da Tiro a Volo.
Non veniva nè sparato nè lanciato, doveva solo “cadere per volare”. Un’altra contraddizione relativistica. D’altra parte, tutto nell’Universo sta cadendo. Noi animali siamo trattenuti dal suolo, altrimenti in pochi secondi visiteremmo il centro del Pianeta. Il Sole stesso sta cadendo verso il centro della Galassia, per fortuna ha abbastanza velocità da orbitare, altrimenti cadrebbe. Per questo lo avevano costretto ad allenarsi con il paracadute. Lo scopo era quello di abituarlo alla sensazione di vuoto, alla bocca dello stomaco che ti arriva in gola, a precipitare, anzi proprio a buttarsi, compiere quell’atto folle ma volontario di uscire dal portellone dell’aereo e precipitare finché l’aria intorno al paracadute non frena la caduta fino all’impatto col suolo. Una faccenda di velocità relative. Quella era la sensazione che descriveva Elisabeth del suo viaggio del Primo Contatto: precipizio senza fine, accelerando ad ogni istante, precipitare a gravità zero.
“Considera che ero seduta nella poltrona, quella che mi ha quasi ucciso. Sentivo forti le vibrazioni, e quello mi riportava indietro alla solidità delle cose, tutte sensazioni. Tu non avrai lo stesso vantaggio. Non so cosa succederà. Preparati a precipitare.”
Giovanni si decide ed entra. Un istante dopo la porta viene sigillata.
Ora è solo.
Non era una novità.
C’era solo il grigio del Proiettile, l’acciaio temperato. Niente altro. Chiuse gli occhi e si concentrò sul respiro: pensa all’aria che entra, pensa all’aria che esce. Sentiva le vibrazioni, forti, sotto i piedi, mentre i grandi cerchi di acciaio vorticavano sotto di lui.
Avevano eliminato le comunicazioni verbali. Aveva solo un orologio digitale. C’era scritto: Status: GO.
Le vibrazioni aumentarono ma lui, più concentrato, le sentì più distanti. Le suole delle scarpe cominciarono a scivolare sulla piattaforma zigrinata in acciaio, il Proiettile quasi scappava sotto ai piedi. L’orologio: Status: GO. Doveva essere partito l’ultimo gigantesco cerchio d’acciaio, accelerato dalla coppia di razzi.
Inspirazione, espirazione. Concentrati, respira.
Cominciò il conto alla rovescia finale. L’orologio mostrava GO, in rosso, e i secondi: 5, 4, 3, 2, 1, 0
Giovanni precipitò, ma solo per una frazione di secondo, forse un paio di millesimi. Cominciò a fluttuare privo di peso, nel buio assoluto. La vibrazione era cessata. L’orologio mostrava solo l’ora: 16,03.
Accese la luce pettorale, quella più forte. Le pareti del Proiettile sparirono alla vista come per magia. Fuori il tunnel spazio temporale che stava percorrendo si avviluppava in se stesso, si attorcigliava come le budella di un enorme serpente luminoso, un Drago lungo anni e anni luce, fino a perdersi lontano nello spazio buio.
Cadeva, precipitando.
Non sentiva niente.
Era a gravità zero.
Fluttuava come se fosse in una piscina.
Guardò l’orologio: 16,12. Erano passati nove minuti. L’unica cosa che poteva pensare è che erano passati nove minuti della sua vita. Il resto, là fuori, chissà a che tempo andava avanti. Il tunnel spazio-temporale si contorceva e lui precipitava, forse, ma niente avrebbe potuto confermare la sua sensazione fisica: lui era fermo.
Velocità? Nessuno avrebbe potuto dirlo, nessuno.
Era così concentrato nella respirazione che rimase sorpreso quando si trovò seduto sulla piccola piattaforma di base del Proiettile, e d’improvviso si accorse che il tablet pesava. Non molto, certamente meno che a casa, ma qualcosina pesava.
Gli girava leggermente la testa.
Chiuse gli occhi e respirò profondamente.
Sentì una voce femminile che gli diceva di indossare il casco. Non era un vero ordine, un’istruzione di routine piuttosto.
L’aveva appena agganciato alla tuta che la porta del Proiettile si aprì.
L’ambiente si illuminò di una luce rosa, tenute, come accade sulla Terra dieci minuti dopo un rosso tramonto con grandi nuvole allo zenith. La porta si scostò e lui vide il suo primo alieno. Aveva una testa, due braccia, due gambe e un torso. Indossava una specie di tuta spaziale grigio metallizzato, con tanto di grosso casco rosso e visiera nera. Giovanni guardò con intensità il punto in cui se fosse stato umano ci sarebbero stati gli occhi, ma non vide nulla. L’Alieno alzò la mano, poi la protese verso il tablet. Giovanni si avvicinò alla soglia del Proiettile e glielo porse. L’Alieno lo prese, tirò fuori dalla tasca un aggeggio e lo mise a contatto con lo schermo.
Fu in quel momento che Giovanni si accorse che l’umidità interna del Proiettile si era completamente congelata all’interno, creando un sottilissimo strato di ghiaccio che brillava. Doveva fare un freddo glaciale, lì fuori.
L’Alieno gli restituì il tablet, poi si spostò di lato e lui uscì dal Proiettile.
Era in piedi su una piccola piattaforma di metallo a un metro di altezza dalla superficie del pianeta, una distesa di sabbia rossa, tenuemente illuminata dal sole rosso, molto in alto. Lì doveva essere mezzogiorno, più o meno. Guardò l’orologio: le 18,13.
Era tutto buio e rosso. Non vedeva gran che. Così, automaticamente, accese la luce pettorale. La luce azzurra si allargò sulla piattaforma, sulla distesa di sabbia e dietro di lui sulle pareti del Proiettile. Giovanni si guardò intorno e vide che il casco dell’Alieno era diventato nero. Forse non gradivano quella luce così intensa. La spense.
L’Alieno abbassò la testa mentre il casco ridiventava rosso. Che fosse una specie di ringraziamento?
Poi sentì dentro il casco la voce femminile invitarlo a seguire il Personale. Personale? Che Personale?
Vide l’Alieno che cominciava a camminare e lui fece un passo … troppo forte. Volò via. Sorpassò volando l’Alieno e ricadde oltre la piattaforma, sulla sabbia. Che strana sabbia davvero! Era rossa, come polvere di sangue rappreso, estremamente secca, crepitava al semplice tocco.
La voce femminile lo invitò a controllare il passo per la leggera gravità.
Non era facile. Giovanni se ne rese conto presto. L’Alieno camminava con eleganza a forte velocità. Lui invece era impacciato e doveva stare attento a muovere i muscoli, bastava forzare un po’ di più la caviglia e balzava via come un canguro.
Camminava, se quello era camminare, su una specie di nastro grigio verso distanti costruzioni rosse. In giro c’era solo lui con il suo Alieno. Pensò che sulla Terra ci sarebbe stato un comitato di accoglienza nutrito di politici, giornalisti e militari, tutti pronti a farsi ben inquadrare dalle telecamere. Entrò in uno degli edifici e una breve rampa priva di gradini consentiva l’accesso all’ampio corridoio bianco su cui si aprivano porte oblunghe dall’aspetto molto solido. Una di queste si aprì e lui entrò. L’Alieno restò fuori, alzando la mano in segno di saluto.
Dalla grande finestra dall’altro lato dell’entrata Giovanni poteva vedere la città: un paesaggio multicolore, immerso in una luce rossastra, una luce che gli ricordava il sonno.
Sonno?
Forse a causa del silenzio: è da quando è partito dalla Terra che il silenzio si è fatto palpabile.
Il panorama dall’ampia finestra era arricchito da due soli rossi. Uno dal disco molto grande, l’altro più piccolo. Ma ce n’è un terzo, molto piccolo o distante, di un intenso azzurro, brillantissimo. Gli avevano detto di fare attenzione, di non guardare mai direttamente la luce di stelle minuscole ma brillanti, ci poteva rimettere la retina. Non vedeva lune, dalla finestra. Ma non si può dire, magari più tardi ne sarebbero sorte sei, per quel che ne sapeva lui.
Il silenzio era tale che la voce nel casco gli fece fare un balzo: “Benvenuto su Gahal. Ci scusiamo se questo messaggio conterrà linguaggio con errori, i nostri sistemi stanno imparando. Controlla sui tuoi sistemi d’ambiente, la composizione dell’aria e la pressione, se OK potrai togliere il casco e la tuta.”
Dopo aver verificato sul tablet, inspirò profondamente e sganciò il casco.
Sentì l’aria della stanza entrare. Decise di espirare, tanto valeva fidarsi. Inutile arrivare fin qui e poi non fidarsi di un sensore d’aria.
Espira e Inspira.
L’aria era molto secca, con un buon profumo. Un misto di sottobosco ed erbe aromatiche selvatiche. Gli ricordava vagamente la cucina della nonna in campagna. Ma secco, molto secco.
Respirò profondamente.
Una buona aria. Gli lasciava una sensazione di lineare pulizia.
Non saprebbe neanche lui perché, ma decise di ringraziare chi si stava occupando di lui.
Disse: “Grazie”
La solita voce femminile sintetica gli rispose: “Prego. Ci scusiamo se non troverà un perfetto confort.”
A quello era preparato. Gli avevano detto di togliere la tuta solo dopo aver visto il bagno. Si erano dati tanta pena per installargli il sistema di evacuazione. Tanta tecnologia, viaggi interstellari, salti spazio temporali ma l’uomo restava un animale, con le sue deiezioni.
C’era un porta laterale. Controllò la spinta dei piedi ed entrò: vide un lavabo con un rubinetto, un normale wc e un soffione per la doccia su una parete. Tutto grigio chiaro, metallico, pulito. Accese la luce pettorale. Il pavimento grigio aveva uno scarico al centro. Aprì il rubinetto e vide uscire l’acqua. Ci mise un dito sotto, l’analizzatore avrebbe fatto il suo dovere. Forse. Poi provò lo sciacquone. Funzionava. Poteva togliersi la tuta. Ci mise un po’, non era per niente facile.
Ping.
Guardò il tablet. C’erano le istruzioni per l’uso del computer sulla scrivania, sul lato della stanza. Erano molto semplici: “Siediti per usare il Comunicatore”.
Lo fece.
Subito si aprì uno schermo virtuale. Pensò che fosse troppo scuro. Lo schermo reagì diventando brillante. Poi si chiese dove fosse. Sullo schermo comparve l’immagine della Galassia con due punti notevoli. Su uno c’era scritto Earth, sull’altro Gahal. Poi pensò: ok, ma dove su Gahal?
Comparve un video che mostrava Gahal dallo spazio, poi l’immagine si ingrandiva. Sembrava Marte. Più o meno. C’erano solo due fasce verdi subito sopra il quarantesimo parallelo. Non c’era mai notte, solo luce diversa, più rossa o più blu. Un paio di oceani bianco-azzurri, ma niente del blu intenso della Terra. Poi vide un punto rosso in pieno deserto. C’era scritto “base spaziale 78”. Ecco. Lui era lì, al numero 78.
Pensò: quanti siete?
Comparve l’immagine di Gahal, un’immagine geografica, come se fosse una fotografia elaborata per diventare una mappa e un numero accanto: 954.890.762.
Pensò: quanto vivete?
Lo schermo diventò blu. Un colore strano lì, in quella stanza.
Comparve una scritta: Tempo.
Pensò: posso incontrare mia moglie e mia figlia?
La risposta fu: No.
Pensò: noi sulla Terra siamo 9 x10 alla nona, divisi in quattro Imperi, e desideriamo energia. Come dobbiamo fare?
La risposta fu: a noi bastano tre stelle.
Pensò: che vuol dire?
La risposta fu: a noi bastano tre stelle.
Gli venne l’idea che non avrebbe avuto altre risposte, inutile insistere.
Pensò: come facciamo a evitare la guerra?
la risposta fu: a noi bastano tre stelle.
Pensò che i Gahaliani erano davvero intelligenti, oppure persino il Comunicatore era stupido.
Lo schermo divenne nero.
Pensò: scusami. Il fatto è che ho un problema. Mi hanno mandato qui per avere da voi informazioni per risolvere i nostri problemi. So benissimo che sono tanti, e complicati, ma non riusciamo ad uscirne.
La risposta fu: “abbiamo caricato molte informazioni astronomiche su Gahal nella memoria di quello che chiami Tablet. A tutte le altre domande c’è solo una risposta: a noi bastano tre stelle. Così si è sempre fatto, da millenni. Funziona.”
Giovanni sbatte le palpebre. Una volta, due volte. Poi tenne gli occhi chiusi. Vedeva la risposta, sullo schermo, anche a occhi chiusi. Che magia era quella? Si stavano interfacciando sul suo nervo ottico?
La risposta fu: Si.
Chiuse di nuovo gli occhi. Si trovava su un Pianeta Alieno, distante forse centinaia di anni luce dalla sua casa di Roma, gli Alieni hanno stabilito una connessione neuronale col suo nervo ottico, e forse anche con il cervello. O era nei guai, fino al collo, senza alcuna speranza di uscirne vivo, oppure non gli restava altro che fidarsi.
Era stanco. Molto stanco.
Si sentiva sfinito, in ogni fibra del suo essere.
Si addormentò.
Non si accorse che la poltrona cambiava forma e inclinazione. Non si accorse che il vetro della finestra si oscurava fino a rivelare una sola fonte di luce, la lontana stella blu.
Stava sognando.
Un sogno dettagliato, preciso, dai colori intensi, tanto perfetto da essere, con ogni possibile considerazione, del tutto reale. Sognò di nascere su Gahal, di essere un gahaliano, uno qualunque. Di avere una mamma e un papà gahaliani e di andare a scuola. Di superare l’esame di Elementi Fondamentali di Cultura Galattica. Sognò di ricordare, di amare, di vivere la sua vita normale, a tratti esaltante, spesso banale, sul suo pianeta, il Pianeta Gahal. Si era innamorato, si era sposato ed era diventato padre, e adesso riposava di sera, com’era solito fare, prima di fare quel che faceva di solito: analizzare i dati agricoli del suo settore. Restò a occhi chiusi per qualche istante, pregustando la fine di quel sonno breve, di circa mezz’ora, com’era normale su Gahal. Per essere pronto ad alzarsi e continuare nel suo lavoro, quello che amava, l’analista. Si stava coccolando, nella prospettiva di aprire gli occhi e vedere la grande finestra e la Base 78, quella in cui era stato distaccato dal Vertice di Comando dei Contatti.
Alla fine doveva decidersi, il tempo stava passando.
Aprì gli occhi.
Ma non vide solo la finestra.
Vide le sue mani.
Il cuore sussultò e la mente vacillò: che assurda creatura era diventato durante il sonno? Stava forse sognando ancora? E che cosa era quell’orribile schermetto vicino alla mano con quegli strani simboli?
Sentì che nel cervello scattava qualcosa e un nodo gli strinse la gola.
Ricordava.
Ricordava di essere, oppure di essere stato, un terrestre, uno di quei nuovi viaggiatori, l’aveva letto da qualche parte nella cronaca gahaliana. Possibile che se lo fosse sognato? Lui? Un terrestre? Ma Kira? Ohoghiu? Provò a chiamarli per nome, devono essere da qualche parte, lì in casa. Ma la sua voce era cambiata, non riusciva ad emettere quei suoni. Gli uscivano dei suoi strani, mai sentiti, acuti, non era quella la sua voce. Oh, che incubo terrificante!
Oppure realtà. Una realtà orribile.
Aprì gli occhi, di nuovo, vide l’orologio e le sue mani.
Quello sono IO, pensò. Anzi, questo sono io.
Ricordava.
Ricordava di chiamarsi, anzi, di essere Giovanni De Soto, Terrestre, in visita al Pianeta Gahal, e quel che aveva fatto era un sogno, certamente indotto dai sistemi computerizzati dei Gahaliani.
Pensò: Sei stato tu a farmi fare il sogno?
Risposta: Si. Come ti senti?
Pensò: Benissimo. A parte che quasi mi veniva un colpo. Non avete esagerato con il realismo del sogno?
La risposta fu sonora, la solita voce femminile: Era l’unico modo sensato, utile e perfettamente conseguente di svolgere la tua esplorazione. Si è fatto sempre così. Funziona. Ora sei pronto a tornare. Indossa la tuta e metti il casco.
Mezz’ora dopo era pronto. Col tablet e la bottiglia dell’acqua infilata nei pantaloni.
Pensò: L’acqua che mi avete fornito è biologicamente compatibile?
Rispose la voce femminile, nelle cuffie del casco: Si, certo. L’abbiamo ricreata con i contenuti della tua preferita, l’acqua minerale Perrella, Fonte Albana, Toscana.
Giovanni sorrise. Ma non pensò nulla. Doveva stare attento a quel che pensava.
La voce femminile gli chiese se fosse pronto.
Rispose a voce: “Si”.
La porta della sua stanza si aprì e lui vide l’Alieno. Era quello di ieri? Non avrebbe saputo dirlo. Però adesso sapeva perfettamente come comportarsi. Pensò: Ti auguro ogni bene, chiunque tu sia, e ti ringrazio per l’accoglienza e il benvenuto, ieri e oggi. Che la Luna Maggiore possa essere prodiga di delizie nella tua vita.
L’Alieno rispose in Gahaliano, Giovanni comprese, ma il suo apparato vocale umano non gli permetteva di emettere suoni simili. Giunse le mani e abbassò la testa.
Un’ora dopo era a bordo del Proiettile. Ma non c’era nessuna LAN che girava vorticosamente, nessuna piattaforma a trenta metri d’altezza, nessuna vibrazione, nessuna poderosa manifestazione meccanica. C’era il più assoluto silenzio.
Fuori, all’ingresso del Proiettile, era stata installata una piccola scatola rossa. Quando la vide si chiese cosa fosse e la voce femminile gli spiegò, in gahaliano, che era un dispositivo per la creazione di un campo gravitazionale analogo a quello terrestre ma con il vantaggio di essere coniugato alla navicella spaziale, consentendo un solo viaggio di andata lungo il Tunnel già percorso. La scatoletta si sarebbe poi distrutta all’arrivo.
La porta si chiuse e il Proiettile fu sigillato. Giovanni guardò l’orologio. Mostrava il conto alla rovescia: 5,4,3,2,1,0. Ma non ci fu lo stacco gravitazionale, non si era accorto che da tre secondi era a gravità zero, anzi, forse, lo era sempre stato. Stava impazzendo? Con un’intuizione accese la luce pettorale. Le pareti della capsula sparirono e per un istante, solo un’istante, vide alla sua destra una stazione spaziale che si allontanava velocemente. Poi precipitò nel Tunnel.
Il viaggio di ritorno non ebbe sorprese e non ci fu nulla di notevole da segnalare. Durò esattamente 18 minuti e 36 secondi, giusto il tempo di ambientarsi nuovamente con la gelida atmosfera del Proiettile e sentì nuovamente la gravità terrestre. Ora era di nuovo saldamente con i piedi per Terra. Accese tutte le luci della tuta e cominciò a parlare per stabilire la connessione radio con la Sala del Centro Operativo della Lan. In effetti non aveva nessuna idea di dove fosse, le pareti del Proiettile erano completamente opache.
“Pronto, Pronto, Qui Falco per la Sala operativa LAN, mi sentite?”
“Falco a Sala operativa, mi sentite?”
Continuò a chiamare per cinque minuti, poi finalmente gli risposero.
“Qui Sala Operativa LAN, Falco, ti sentiamo forte e chiaro. Attendi”.
“Come “attendi”, ma che diavolo succede?”
“E’ che non ti aspettavamo, non sapevamo quando saresti tornato, qui dormono tutti, sono le 3,13 del mattino”
“Ah, ho capito, al solito. Ma di che giorno?”
“E’ il 23 settembre. Sei stato via esattamente 48 giorni, 7 ore e … boh, qui mi dice 17 secondi”.
“48 giorni? Wow, per me sono state solo 32 ore, quasi. Io qui non ho riferimenti, sai dirmi dove mi trovo?”
“Un attimo”
Dopo tre minuti, arrivò la risposta.
“Sei esattamente sulla piattaforma di lancio, da dove sei partito”.
“Ah, bene, allora mi tirate fuori di qui?”
“Dovrai aspettare. Ho tirato tutti giù dal letto. Però dovrai passare tutti i controlli batteriologici, chimici, di inquinamento, virali e di contaminazione da radiazione”
“Inutile. Non sono mai uscito dal Proiettile. Si trova come quando è stato sigillato alla partenza”
“Sei sicuro? Non hai visitato qualche nuovo pianeta?”
“In un certo senso, ma sono sempre rimasto dentro il Proiettile. Mica sono scemi su Gahal!”
Purtroppo per lui, venne messo in quarantena in un compound che accoglieva anche il Proiettile. Durò solo sei giorni, il tempo che gli astronomi impiegarono nell’esame dei dati di volo del Proiettile, esame che dovette essere ripetuto una dozzina di volte da astronomi, ingegneri e medici diversi. Una procedura imprevista, imposta dal Direttore di Volo, visto che i dati mersi erano incredibili: il Proiettile era stato agganciato ad una Stazione Spaziale in orbita su Gahal, pianeta di un sistema trinario a 400 anni luce dalla Terra. Il Proiettile non era mai stato aperto e Giovanni non ne era mai uscito.
Ne parlarono con Giovanni, per niente stupito. “Ve l’avevo detto, i Gahaliani non sono stupidi. Mai contaminare un pianeta con materiale organico di un altro”. Ma ci volle un po’ per tirargli fuori tutta la storia. Non gli credettero, così come non avevano creduto a Elisabeth. Giovanni le chiese consiglio, in un collegamento via Whatsapp, mentre era ancora in quarantena.
“Spiegagli” disse Elisabeth “non ti crederanno lo stesso, o almeno a te sembrerà così. Ma non è vero, il tempo cambia le cose, sempre”.
E così Giovanni cominciò a parlare, registrando file vocali sul tablet. Descrisse tutto quello che era avvenuto nella sua mente. Tutti quei file audio vennero secretati, ma era del tutto inutile, nessuno credeva davvero alle parole di un uomo ripreso per 38 ore a dormire dentro una capsula spaziale sigillata. Quello sembrava aver fatto Giovanni: dormire. A occhi aperti o chiusi, ma sempre e comunque dormire. Fluttuava all’interno del Proiettile. Quello mostrava la ripresa ininterrotta della registrazione video interna al Proiettile, con o senza luce.
Angelo Gentile, il Presidente, era furibondo. Avevano speso migliaia di miliardi di euro per mandare un tizio in giro nello spazio a dormire. E non c’era nessuna conferma possibile che il Proiettile fosse davvero arrivato su Gahal, a 400 anni luce di distanza. La conferma poteva arrivare solo fra 400 anni infatti, il tempo affinché la luce riflessa dal Proiettile in orbita Gahaliana raggiungesse la Terra, ammesso che nel frattempo si fosse sviluppato un sistema per vedere a quel livello di dettaglio.
E le domande con cui era partito Giovanni, che fine avevano fatto? Lui stesso ne parlava molto, nei file vocali secretati. Ma come credere ad un uomo che dormiva?
Susan Grey invece gli credeva. Tutto, nel suo racconto, quadrava alla perfezione. Come un film ben montato o un romanzo molto ben congegnato. E quadrava anche con i dati interstellari.
Susan era stata incaricata di “approfondire”. Non le dissero che cosa voleva dire quella parola. Approfondire la ricerca, cercare di capire cosa è successo. Capì subito che era una fregatura, qualunque cosa avesse scoperto non le avrebbero creduto, oppure i risultati sarebbero stati cestinati. Però si gettò a capofitto nella ricerca, era proprio quello che intendeva fare. Esplorò ogni coordinazione tra le informazioni del Sogno di Giovanni e la realtà razionale dei pochi dati a disposizione.
Per prima cosa Susan analizzò i dati astronomici registrati nel tablet. Ci mise tre settimane, utilizzando il James Webb Observatory in orbita solare in Lagrange 2 Terra. A 400 anni luce c’era davvero un sistema trinario, noto da tempo. E con le nuove informazioni di Falco sulle centrali elettriche orbitali in Lagrange 1 e 3 Gahal era anche possibile, finalmente, chiarire i dati astronomici di interferenza luminosa: quello che vedeva il telescopio erano i due giganteschi pannelli solari delle due centrali elettriche orbitali, oltre al Pianeta Gahal. L’interferenza aveva un periodo di 2 anni circa, compatibile con lo spostamento delle centrali e la diversa angolazione dei pannelli produttori di energia. E tutto grazie alla bassa luminosità delle due stelle rosse centrali che interferivano poco con le osservazioni astronomiche. I dati su Gahal poi concidevano: composizione, massa, gravità e luminosità relativa. I dati registrati dagli Alieni sul Tablet erano coerenti. Insomma, quella parte del Sogno di Giovanni reggeva alla prova dei fatti.
Ma Gentile voleva risposte e quelle si trovavano solo nei file vocali del Sogno di Giovanni. Energia, innanzitutto. A loro bastavano tre stelle. Cosa voleva dire? Che per avere energia dovevano conquistare altri due sistemi solari? Che avrebbero dovuto distruggere le basi spaziali dei cinesi, americani e russi per costruire la propria in via esclusiva? Che doveva esserci una guerra spaziale per l’occupazione dell’orbita o dei punti Lagrange?
Susan aveva ascoltato la registrazione di Giovanni tante di quelle volte che ormai la sapeva quasi a memoria. Era il racconto della vita di un gahaliano, uno qualunque, fino ai suoi 35 anni, la stessa età di Giovanni. Ma siccome era un sogno, occorreva parlare con il suo portatore, con il soggetto che l’aveva “vissuto”.
Così chiese e ottenne una sessione di interrogatorio con Giovanni. Serviva un posto comodo, con una bella vista, a due passi dal LAN, un posto da cui fosse quasi impossibile scappare senza essere visti. Non una prigione, piuttosto un B&B. Susan riuscì ad avere un paio di stanze nel Wasserturm di Cuxhaven, l’antica torre d’acqua costruita nel 1867. Era diventato un B&B, ed era perfetto alla scopo: sembrava un castello da fiaba. Ottimo per le lune di miele, fantastico per rivivere un sogno. Dalle finestre lo spettacolo del LAN distante otto chilometro era mozzafiato, soprattutto quando la nebbia si allungava nella foce dell’Elba. Il LAN era tanto alto da sbucare fuori dalla foschia che fluttuava sull’acqua, all’alba.
Susan prenotò per 4 notti, tre stanze. Una per Giovanni, una per lei e una per Hans, l’agente del Bundesnachrichtendienst (BND), l’agenzia di intelligence della Germania. Stava sempre zitto, armeggiava con la sua videocamera per riprendere tutto. Susan non ci faceva caso, e in capo a due giorni Hans scomparve dalla mente di Giovanni e Susan, come se non fosse presente.
I primi due giorni Susan era preoccupata. Giovanni non riusciva a calmarsi. Era troppo infervorato dal Sogno e dal come convincere i suoi superiori che quello che aveva sognato l’aveva, in verità, vissuto. Aveva tentato di farlo passare per un film “indotto” nella sua mente, aveva chiarito che i gahaliani avevano poteri mentali, che avrebbero potuto distruggergli la mente, ma non l’avevano fatto. Che, avevano detto, si è sempre fatto così, da millenni, quindi anche gli Altri dovevano avere poteri mentali.
Ma non era servito a nulla.
Non gli credevano.
Non capivano nulla.
Forse addirittura non gli interessava.
Giovanni si arrovellava su un’idea, che era diventata una fissazione: a tutti questi politici non interessa perchè i gahaliani non votano. Semplice, no?
“Che idea singolare!” diceva Susan “e anche se fosse? No, non è quello il problema, il problema è che tu hai fatto un sogno. Non si dice così? Fatto un sogno. Ma i sogni non si fanno, vengono chissà da dove”.
Giovanni non rispose. Disse che andava a farsi una doccia, erano le cinque del pomeriggio e fra non molto il sole sarebbe sceso all’orizzonte.
Quando tornò nella sala comune del B&B, Susan era china sulla testiera del computer. Lui si era avvolto nell’accappatoio, con i capelli bagnati. Fuori era già buio e le luci di ingresso alla foce dell’Elba splendevano al ritmo del respiro. In lontananza la scura massa del LAN si stagliava come un’ombra nel buio incipiente.
“E’ stata una buona doccia?”
“Oh si, finalmente. L’acqua caldissima rilassa, oltre a fare un sacco di vapore. Mi sento sfinito, svuotato. Inerme. Una buona occasione per te.”
Susan chiuse di scatto il portatile e lo guardò sorridendo maliziosamente.
“Bene, allora cominciamo! Che ne pensi di questo viaggio?” chiese a Giovanni.
“Sempre la stessa domanda eh? Ma non credi che sia una mancanza di fantasia da parte tua?”
“Oh si, certo, d’altra parte hanno scelto me proprio perchè non ho fantasia.”
“Non credo proprio. Hanno sbagliato. Tu hai immaginazione, altrimenti non avresti scelto questo posto per il tuo interrogatorio.”
“Non è un interrogatorio” disse Susan, con veemenza.
“Ok, ok, non ricominciamo. Sono in stato di grazia, dopo la doccia. Non ho voglia di controbattere. Quindi adesso ti dico cosa penso di questo viaggio, però ad una condizione.”
“Sentiamo.”
“Alla fine non devi nemmeno pensare che io sia matto”.
Susan ci pensò su mentre lo guardava negli occhi. Non c’era molta luce in quel salotto, aveva dimenticato di accenderla, il sole era sceso, ma lei era rimasta al computer con la tastiera retroilluminata. Vedeva Giovanni come una forma indistinta, allungata sul divano, il suo corpo avvolto dall’accappatoio. Doveva essere completamente nudo sotto. Per un istante sentì come lui, come doveva sentirsi lui, almeno quali fossero le sue sensazioni, con la pelle attaccata al tessuto bagnato. D’istinto si tirò la gonna verso le ginocchia.
“Fedeltà dunque?” disse.
“No, quella mai. Lealtà, piuttosto”
“Oh si, sarò leale con te. Qualunque cosa dici.”
“Bene allora. Cominciamo. Innanzitutto ti dico perchè rispondo alla tua domanda. Mentre facevo la doccia ho pensato che questa è l’ultima occasione per dire quel che penso sia successo, non ne avrò altre credo. Quindi ne approfitto. Cominciamo dall’inizio. Tu chiedi del viaggio. Ma c’è stato davvero un viaggio?”
Giovanni vide che Susan si agitò sulla poltrona.
“No no, calma, lo so che ho viaggiato, altrimenti nulla avrebbe senso, ma lo so perchè io non avrei mai potuto immaginare una roba del genere, quindi mi è accaduto qualcosa. Ma cosa? Immaginiamo di salire sul treno Roma Milano, e mentre siamo in attesa che parta, passa il controllore e ci passa un biglietto immerso nell’LSD. Noi lo prendiamo, lo riponiamo nella tasca della borsa, poi crolliamo seduti e parte il trip. Lucy in the Sky with Diamonds. Tutti quelli che hanno sperimentato l’LSD dicono che mai avrebbero pensato di avere quelle immagini “dentro” il loro cervello. Ecco, nel mio “viaggio” è successo l’esatto contrario: nessuno mi ha dato droghe. Mi hanno fatto “vivere” un film. Come se fosse un videogioco di ultima generazione, in cui il soggetto compie scelte, ama, odia, studia, dorme, si sveglia, ride, gode, soffre. Un duplicato di vita vissuta. Infatti si interrompe esattamente a 38 anni, la mia età. Io ho vissuto come Ashtot, il gahaliano, lascia perdere il fatto che sia stato per opera loro, il risultato finale è che io ho vissuto. Anzi, Susan, attenta, io sto ANCORA vivendo come Ashtot, a 400 anni luce dal mio pianeta. Io sono il primo Homo Sapiens a vivere in due pianeti, ma non uno prima e uno dopo, bensì contemporaneamente. Quando dormo sogno di essere Giovanni o Ashtot, e accade lo stesso mentre sono sveglio, solo i miei occhi mi dicono che sono sulla Terra. Ti rendi conto? E’ schizofrenia oppure gli effetti del Viaggio, come lo chiami tu? No, è il viaggio da cui non sono mai tornato davvero. Fisicamente sono qui, spiritualmente in tutti e due i pianeti, il tempo per me non esiste. Cosa penso quindi del viaggio? Che ho fatto un viaggio all’andata, ma il ritorno non c’è, nessuno potrà mai credermi. “
Susan aveva gli occhi spalancati. Era atterrita. Non avrebbe mai pensato ad una cosa del genere. Non c’era negli audio del Sogno.
Si alzò dalla poltrona. “Non è meglio accendere la luce?” disse.
“No, siediti. Il buio mi aiuta” disse Giovanni. Poi continuò.
“La cosa più singolare però non è questa, ma il perchè, che poi risolve anche il problema del cosa. Ashtot sa benissimo perchè su Gahal Giovanni ha fatto il Sogno. Sa benissimo perchè noi Homo Sapiens siamo stati dirottati su Gahal. La loro storia è assai simile alla nostra. La selezione naturale ha prodotto i Gahaliani, come noi. Sono usciti dal continente madre e si sono diffusi su tutto Gahal, come noi, senza mai tornare indietro. Nemmeno gli antichi romani sapevano cosa succedesse in Cina e le prime notizie per noi le ha portate Marco Polo nel 1300. Guarda un po’ nel 1500 si scopre l’America, anzi, non sanno nemmeno capire di essere finiti su un Continente, Colombo non sapeva dove fosse, in realtà, quando ci arrivò. Una cosa assai simile al mio viaggio, se ci pensi. Poi, per cinquecento anni, non abbiamo fatto altro che massacrarci alla conquista di tutto. Nel frattempo scoprivamo l’Energia. E’ successo anche su Gahal. Anche da loro E è uguale a M C quadro. Non è fantastico? Così, come noi, hanno cominciato a sfruttare Gahal pensando che fosse come da noi la Terra. Un colossale errore, lo capirono anche loro, dopo. Non stavano sfruttando Gahal ma tutta l’energia che il sistema trinario di soli aveva gettato sul pianeta. Stavano desertificando Gahal. Lo puoi vedere sui dati del tablet. Lo chiamano il Periodo della Riunificazione. Noi abbiamo seicento lingue parlate da seicento e passa popoli, loro ebbero più fortuna, ce n’erano solo cinque. E anche così si massacrarono senza ritegno. Anche da loro il linguaggio fu radicato nella terra, pensavano che fosse la terra a produrre il linguaggio degli uomini che vi stavano sopra. Una follia. Anzi, peggio, un’idiozia estrema. Come da noi. Che c’entra il linguaggio con la Terra, o l’energia dei soli? Niente. Eppure si massacrarono per il dominio di un unico linguaggio, legato ad un’unica terra. Divenne lotta per la conquista dell’energia fossile, come da noi. Questo ho studiato nelle scuole su Gahal. La Riunificazione fu ottenuta con fiumi di sangue, i deserti di Gahal diventarono rossi per il sangue versato. Si anche io come gahaliano ho il sangue rosso. Eppure da loro, come da noi, la soluzione era così semplice. “A noi ne bastano tre”, non è la risposta di un computer senza intelletto, ma la base culturale di un pianeta: tre stelle come tre fonti di energia. E nel momento in cui andarono a prenderla dallo spazio, la Riunificazione potè cominciare davvero. Perchè con l’abbondanza di energia non fossile, i Gahaliani si concentrarono sul linguaggio grazie ai computer. Scoprirono la Mente che mente. I Terrestri sono ancora molto lontani da tutto ciò. Ma è proprio per questo che gli Altri, tutti gli Altri, non solo i gahaliani, hanno deciso di mandarci i progetti di LAN. Perchè qualcuno potesse fare un viaggio e non tornare mai. Tornare col corpo ma non con la Mente. Ecco cosa penso del viaggio. Io sono l’unico testimone vero del Viaggio, questa è la risposta alla tua domanda, solo che la testimonianza non è nel corpo ma nella Mente. Cui, com’è ovvio, nessuno crede. Ma sai perchè non impazzisco, oppure provo dolore? Perchè tutto ciò Ashtot l’ha studiato a scuola! Su Gahal i progetti LAN sono arrivati mille anni fa e la loro Elisabeth si chiamava Hyka. Tuttavia, nonostante il mio corpo umano terrestre, preferisco considerarmi un gahaliano piuttosto che un terrestre idiota.”
Susan era visibilmente sconvolta. “Ma tutto ciò non c’è nel tuo file audio del Sogno!”
“Certo, e me ne sono guardato bene dal dirlo. Già mi considerano inutile, ma farmi rinchiudere in un ospedale psichiatrico, grazie no!”
“Quindi pensi che l’esplorazione spaziale, anche con i LAN, sia una cosa utile” chiese Susan.
“Al contrario. E’ del tutto priva di senso. I gahaliani lo hanno compreso quando cominciarono a studiare la Mente e il linguaggio. Furono fortunati. Avevano all’attivo dodici missioni spaziali per la colonizzazione di due diversi pianeti del loro sistema. Morirono tutti, la maggior parte per suicidio. Alla fine compresero. Nessuna specie vivente evolutasi in un pianeta è adatta all’esplorazione spaziale. E’ pura follia. Peggio, idiozia, perpetuazione di schemi mentali di conquista e colonizzazione che non hanno alcun senso. I terrestri dovrebbero capirlo molto più rapidamente, qui sulla Terra esiste l’Outback australiano. Perchè non colonizzare quello? E’ meno difficile!” e qui Giovanni esplose in una sonora risata.
“Ma allora perchè ci hanno mandato i Piani di Costruzione del LAN?”
“Furono gli Xji, così li chiamano i Gahaliani, o una cosa del genere. L’unica specie di un pianeta che riuscì ad abbandonare il pianta morente e a esplorare lo spazio. Decine di milioni di anni fa. Vagarono nello spazio per millenni, alla ricerca del pianeta perfetto. Non lo trovarono mai. Quando le loro navi spaziali furono diventate così gigantesche da diventare come dei pianeti, allora si posero il problema di aiutare le altre specie viventi nel riconoscere la vacuità dell’esplorazione e a vivere in armonia nel loro pianeta. Diffusero la tecnologia LAN nei pianeti. E la faccia della Galassia cambiò, in qualche decina di migliaia di anni. Cosa penso del Viaggio, quindi? Che è una rarità. Dopo i primi viaggi, nessuno li fa più. C’è un proverbio su Gahal. Sai cosa dice? Gli eroi cercano Paradisi con le mani piene di Inferno. O qualcosa del genere.”
Susan aveva la testa china sul portatile chiuso.
“E adesso ho fame!” disse Giovanni a voce alta “dove andiamo a mangiare?”
Susan alzò lo sguardo e lo vide, come se fosse la prima volta.
“Che mangiano su Gahal?” disse.
“Ahah, lo vuoi sapere? Pesce. Pesce allevato. E Alghe. Buonissime. Potremmo andare a mangiare sushi, gli somiglia. Almeno credo, io l’ho solo sognato.”
“E che farai, adesso?”
“L’interrogatorio è finito?”
Susan ci pensò un attimo, poi annuì.
“Ho un’idea, ma non te la dico. E’ un progetto. Non si parla dei progetti, per scaramanzia.”
“Ma lo scaramantico è Giovanni o Ashtot?” disse Susan ridendo.
“Tutti e due, tutti e due!” disse Giovanni, ridendo anche lui. “Vado a vestirmi e usciamo. Tu prenota un buon posto per il sushi … da sogno! Ahahaha!”.
Un racconto interessante e bellissimi inchiostri. Hai fatto bene a metterli, Antonio.
Un bel racconto che in qualche tratto sembra ispirato a Contact, ma che in realtà si sviluppa in modo autonomo.
Non sono un esperto di fantascienza, ma non mi pare di aver mai letto qualcosa in cui vecchie civiltà galattiche fossero giunte alla conclusione che l'espansione interstellare fosse in realtà controproducente, il che rende quanto hai scritto decisamente originale.
Belli anche i disegni che arricchiscono e completano il testo.
Complimenti.